IL “SOGNO DEL VILLAGGIO”


Pineta Mare, Coppola Pinetamare o, come confidenzialmente amavamo chiamarlo noi ragazzi, ‘il Villaggio”, resterà per sempre uno dei più eclatanti esempi di abusivismo edile della storia della Regione Campania.

Un’intera città; 4 mila abitanti che in estate diventavano anche 20 mila, costruita abusivamente dalla metà degli anni sessanta a fine anni settanta sui terreni demaniali del litorale casertano, con tanto di banche, chiese, scuole e caserme, capace di ospitare addirittura la US Navy e un’ambasciata straniera.

Fino a maledetto terremoto del novembre 1980, il “nostro” formidabile, quanto illecito, Villaggio divenne meta vacanziera dei VIP Napoletani, affiancando Baia Domitia con il vantaggio di essere più vicina alla città.

Per comprendere appieno il boom del Villaggio di quei tempi, è fondamentale ricordare che coincise con gli anni dell’apice della musica di tutti i tempi, fummo intrisi da una irripetibile colonna sonora che annoverava titoli “monstre” da Hotel California a Stairway to Heaven, passando per Smoke on the water, A horse with no name, More Than A Feeling, La Grange e Cocaine, tanto per citarne alcuni.

Certamente tutte le generazioni della storia hanno vissuto momenti di spensieratezza e felicità estrema e, per chi li ha vissuti, quegli anni 70 al villaggio restano decisamente da incorniciare, quando tutto era maledettamente impregnato del Rock e della Disco “fresca partorita” a livelli mai piu raggiunti in seguito.

Era la “Woodstock de noialtri”, eravamo in centinaia, ragazzi e ragazze in una pressoché totale libertà di costumi, che scorrazzavano liberi, indipendenti ed assolutamente ignari del magnifico destino che si stava vivendo.

Si partiva con le colazioni “mattutine” alle ore 14,00  passando per i divertenti quanto pigri, pomeriggi in spiaggia dove si stabilivano accordi e appuntamenti tra chi avrebbe vissuto insieme l’imminente notte(senza smartphone era dura ma, divertente), fino alle docce miste piu o meno “interessanti” e al canonico giro tra pub, birrerie e guest house in stile USA (chi non ricorda il mitico Drugstore) dove venivano confermati gli appuntamenti tra sguardi e baci rubati, per arrivare alla sera quando le discoteche ci accoglievano tra le note di pezzi come “Get Ready”, “Good Times”, “Disco inferno”, “Rapper’s Delight”, “You’re the First, the Last, My Everything”, “We Are the Family”, “Can you feel the force”.

Ma le notti; quelle erano davvero infinite, offrivano sorprese a tutti.

Dalla scoperta di chi era al pigiama party nelle tante ville fronte mare, alla luce soffusa degli scoppiettanti fuochi dei falò in spiaggia, dove bevevi e fumavi liberamente qualsia cosa di disponibile (fortunatamente tutto light), mentre qualche Sharp con pile a posto diffondeva del psichedelico o, meglio, qualche chitarra cercava gli eleganti accordi di Walk on the wild side o di Europa, mentre una coppia usciva di corsa da una delle mitiche cabine, inseguendosi fino in acqua.

Pardon, mi sono fatto prendere la mano.

Comunque, tralasciando nostalgie e senza nulla volere aggiungere a responsabilità penali giuridiche e ai danni ambientali derivati dalla nascita “dal nulla” di un’intera cittadina, questa piccola nota in realtà intende evidenziare l’aspetto tipologico/costruttivo eseguito in quegli anni con l’analisi del degrado derivato che, a rigor di logica, dovrebbe suscitare l’interesse di tutti i professionisti dell’edilizia.

Quindi quasi 5 mila edifici, tra palazzoni e ville unifamiliari, di età compresa tra 30 e 50 anni, si sono trasformati in una sorta di esclusivo “osservatorio o laboratorio edile” a cielo aperto, che rappresenta una esclusiva occasione di studio, ricerca e riflessione, per chi si interessa della qualità del processo costruttivo e delle relative tecniche di recupero.

In questo spettrale panorama di torri deserte che, senza vetri né infissi, attendono esiti giudiziari, cinto da mare e spiagge mortificati dall’inquinamento politico e dall’inciviltà umana, si intravedono, immerse nella pineta tra vicoletti, sterpaglie e cumuli di rifiuti, centinaia di strutture private che tentano una complicatissima sopravvivenza.

Ce ne sono di tutti i tipi e di tutte le dimensioni; tante lasciano intravedere un passato più glorioso, ma la maggior parte è irrimediabilmente compromessa, degradata, disordinata, con finestre sprangate, senza fiori e né vita.

Poche esibiscono dei coraggiosi quanto teneri tentativi di rinnovo materico che, se non altro, dichiarano la timida volontà di fare risorgere questo luogo, che dovrebbe essere considerato, oramai, come patrimonio comune, da indagare e studiare.

In verità un “patrimonio” sgangherato che, dal punto di vista architettonico e materico, appare interamente esausto in tutte le sue prestazioni d’esercizio tanto che, in diversi casi, non ne risulta neanche più leggibile l’originaria idea costruttiva.

Tuttavia, ad ogni primavera, questo sito, adagiato sul degrado e l’abbandono, si colonizza magicamente.

Un esercito di edili improvvisati, composto da artigiani stagionali, scagnozzi occasionali e da sedicenti “tecnici ed imprenditori factotum”, senza competenza alcuna, iniziano a destreggiarsi tra materiali, sistemi e tecniche edili ampiamente superati, inutili e, a volte perfino, pericolosi.

Ma tutto questo lo realizzano con la grande capacità dialettica del folclore Napoletano, con quella innata dote naturale, in grado di trasmettere una rassicurante, quanto improbabile, “sicumera”, il piu delle volte sufficiente a convincere (o meglio, a ri-convincere) i malcapitati committenti a firmare nuovi accordi.

Parte così naturalmente ogni anno, una sorta di romanzesco festival della “riparazione inutile”.

Velocissimi, estemporanei ponteggi sorgono ad imballare muretti di confino, pareti, solai, tettoie ed intere facciate, ospitando sopra orde di operatori di tutti i colori e di tutte le età, che filano via sicuri nel compiere l’annuale inconcludente sceneggiata manutentiva, che, come le libellule, durerà per i successivi sei mesi, nel rispetto della tradizione Partenopea.

Purtroppo, le inconsapevoli vittime di questa superflua e costosa farsa stagionale, sono proprio i privati, quei committenti proprietari che inutilmente pagano annualmente le conseguenze di un irrazionale metodo manutentivo, che non ha né capo né coda.

Ed è un peccato, visto che oggi, anche se al di fuori del circuito del mercato edile tradizionale di massa (quello dei noti supermercati dell’edilizia, leggi “rivenditori”), esistono, e sono disponibili, tanti sistemi manutentivi molto efficienti che impiegano materiali compatibili, anche 100% naturali, in grado di durare, a parità di costo, fino a 5 volte in più del tradizionale eseguito.

Ma come sappiamo bene tutti, in campo edile trasmettere nuove tecniche nell’interesse del privato e della collettività, è sempre molto difficile perché chi tenta di farlo.

Purtroppo, restano sempre troppo ascoltate, le fuorvianti promesse e rassicurazioni da parte degli attori della organizzata filiera speculativa, composta dal “trittico santo” applicatori/rivenditori/produttori, che trae enormi vantaggi dalla stagnazione dell’attuale condizione di profonda e diffusa ignoranza del settore manutentivo.

Del resto, perché fare un solo lavoro che dura trenta anni se nello stesso lasso di tempo possiamo fare anche dieci interventi per quel singolo cliente?

Il suddetto evento primaverile obbliga tutti al rifacimento del proprio trucco, sovrapposto a quanto era avanzato dal precedente anno; ristoranti, bar, alberghi, stabilimenti balneari, scuole, negozi, chiese, discoteche, villette, palazzi, palazzine e palazzoni accumulano quindi errori su errori, senza mai affrontare e risolvere i problemi veri.

La direttiva che impera su tutte le altre è;

IMPIEGARE CEMENTO IN TUTTE LE SUE FORME’

praticamente, un suicidio programmato!

Tutto ciò malgrado viviamo un’epoca in cui è universalmente riconosciuto che qualsiasi materiale cementizio ed affine (come le tanto declamate ed incontrollabili calci NHL), rappresentano il definitivo irrimediabile “male incurabile della manutenzione edile”, laddove coabitino murature, umidità, sali ed aerosol marino, portando al fallimento certo la spesa investita.

C’è dunque da chiedersi; quale è la motivazione di tale autolesionistico comportamento?

All’ipotesi che il sistema edile territoriale, sia programmaticamente indirizzato verso il cinico profitto del “fare per rifare”, contrastano alcune soluzioni adottate da illuminati privati (e i loro rispettivi tecnici incaricati), che lasciano intravedere un’esigenza di livello tecnico qualitativo superiore, anche affrontando opportuni costi maggiori.

C’è, infatti, chi ha tentato di nascondere lo sfrenato degrado in atmosfera marina del calcestruzzo armato dei frontini balconi e dei cornicioni, attraverso la posa di scossaline in rame, pratica che, se fosse eseguita con maggiore competenza tecnologica, porterebbe risultati migliori di quelli ottenuti.

Sciaguratamente, anche questi “esperimenti” sono stati destinati al fallimento, a causa della confusione progettuale e dell’assoluta incapacità esecutiva di chi ha affrontato tecniche che non conosceva, con l’ovvia delusione finale di chi creduto e investito in questa soluzione solo apparentemente risolutiva.

C’è chi, tanto ardimentoso quanto ingenuo, intonaca forse per la decima volta, i propri paramenti murari in tufo fronte mare, rigorosamente con materiali a base cementizia, come opportunamente consigliato dal “mastùPepp” di turno, aspettandosi, chissà perché, risultati diversi da quelli conseguiti negli anni precedenti.

Per risolvere in modo durevole le problematiche manutentive, non basta rivolgersi a un qualsiasi sedicente “esperto edile”, che declama soluzioni risolutive, nascondendo altre finalità, in edilizia bisogna avere innanzitutto una grande passione per l’attività, oltre ad avere accumulato tanta reale esperienza in campo ed avere una sufficiente competenza tecnologica di base.

È necessario, pertanto, progettare ogni minimo particolare, descrivere ogni disciplinare applicativo e ogni specifica tecnica da sottoporre all’operatore, indicando tempi di posa, intervalli e modalità di preparazione dei supporti, in funzione delle specifiche condizioni climatiche, ambientali e di esposizione.

Occorre avere grande capacità e padronanza pratica, per dirigere i lavori in cantiere ed orchestrare manovalanze poco affini alla qualità.

Bisognerebbe educare capisquadra (i cosiddetti “masti”) e operai su minime capacità di magistero, conoscenze e abilità manuali nella posa di sistemi e materiali innovativi, tali per eseguire ciò che gli viene prescritto, nel rispetto della regola dell’arte.

Nella prescrizione/progettazione il tecnico non può, e non deve, limitarsi ad aprire la tariffa regionale per copiare qualche specifica (mal) fatta e redigere un banale capitolato che “vende” al committente, per farselo “inopportunamente pagare”, senza alcun rimorso per il danno che sta procurando.

Dovrebbe essere fondamentale per un professionista incaricato di andarsi a studiare in sito le problematiche, di controllare il cantiere e le materie prime, insomma di sporcarsi le scarpe per diagnosticare, provare, testare, confrontarsi con tecnologi ed esperti e, solo dopo, procedere con nuovi prezzi (NP) distinti e aderenti al caso specifico e il capitolato definitivo.

In questo territorio, sembra che a nessuno interessino questi concetti di qualità e durabilità, mentre è mia personale convinzione, che nessuno sia assolutamente in grado di garantirli in opera.

È interessante notare che finché è il committente privato ad agire con modalità errate, cadendo in buona fede, nei tranelli commerciali che gli vengono tesi, lo si possa anche comprendere.

Ciò che è assolutamente inaccettabile è che a adottare sistematicamente questo mortificante basso livello di approccio al cantiere, siano proprio gli studi tecnici, ma anche “dirigenti e tecnici” che compongono gli uffici pubblici della Regione, Province e Comuni, cioè proprio coloro che dovrebbero rappresentare la verità edile per il proprietario committente.

Proprio questi ultimi, sembrano impegnati a concepire un massiccio intervento di risanamento di quella area, basato però ancora su concetti troppo generici e fumosi, che non contengono alcun indizio tecnologico innovativo, chiaro e risolutivo.

Sarà ancora una volta la solita minestra riscaldata?

Non bastano certo dei bei renders per realizzare infrastrutture di qualità che devono durare nel tempo.

I punti salienti del progetto di sviluppo della darsena vengono espressi con generici termini tipo “riqualificazione, recupero, adeguamento e miglioramento dell’esistente oltre all’integrazione di ciò che manca”, che significano tutto ed il contrario, senza mai che si scenda nei fondamentali costruttivi e manutentivi, che rappresentano le vere soluzioni tecnologiche, che forse nessuno sa o vuole scrivere.

Quella che potrebbe rivelarsi come un’eccellente opportunità di rilancio della zona, andrebbe approcciata con una diversa modalità di progettuale, puntando finalmente su competenze e meritocrazia, ma temo che ancora una volta la direzione globale ed intermedia, saranno affidate alle sterili attività dei soliti amici o dei soliti amici dei parenti o di altri amici che, come sempre è successo, nulla di buono possono scrivere ne fare.

È inevitabile domandarsi come si possa immaginare che gli autori, attivi o passivi, dell’attuale scempio possano essere incaricati di concepirne il futuro risanamento.

Calcestruzzi porosi e scadenti, confezionati con inerti inquinati che scoppiano per degrado solfatico interno; decine di migliaia di mq di incompatibili intonaci cementizi, disgregati su supporti in tufo per ascendenza e azione salina; impermeabilizzazioni bituminose colabrodo mal eseguite e con materiali inadeguati, che consentono la scomposizione di quanto dovrebbero invece proteggere, sono solo una piccola parte del tragico scenario.

La qualità della progettazione del prossimo piano di risanamento, salvo un radicale cambio di passo, potrebbe confermarsi ferma a questi drammaticamente inadeguati livelli tecnici e tecnologici: reti elettrosaldate, betoncini cementizi, guaine bituminose, premiscelati dozzinali e le immancabili quanto altrettanto inutili lastre di ardesia, praticamente l’essenza della nostra tariffa.

Rischiamo di perdere una seria occasione, per riportare questa area finalmente appetibile dal punto di vista turistico e residenziale, bonificandola attraverso l’edilizia e, più precisamente, mediante l’attuazione di un piano manutentivo che basi le proprie linee guida su competenza, compatibilità dei materiali e durabilità degli interventi eseguiti.

Diversamente, il sogno del nostro amato Villaggio tornerà nell’oblio.

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