Arch. Stefano Lancellotti
“Intonaci”, superfici architettoniche di sacrificio perenne ai segni del tempo, i “luoghi del degrado più virulento ed impetuoso” (Giovanni Carbonara) e anche i “luoghi” della testimonianza storica; 𝙩𝙪𝙩𝙩𝙖𝙫𝙞𝙖, 𝙙𝙞𝙨𝙘𝙪𝙩𝙚𝙧𝙣𝙚 𝙖𝙥𝙥𝙖𝙧𝙚 𝙨𝙚𝙢𝙥𝙧𝙚 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙖𝙧𝙜𝙤𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤 𝙢𝙞𝙣𝙤𝙧𝙚.
Se Ruskin affermava che “𝑙’𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑜𝑝𝑒𝑟𝑎 𝑒̀ 𝑖𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑙 𝑚𝑒𝑧𝑧𝑜 𝑝𝑜𝑙𝑙𝑖𝑐𝑒 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒” e Giovanni Carbonara sostiene che “𝑖𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖 𝑒 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑡𝑜𝑛𝑎𝑐𝑖 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑖𝑠𝑜𝑙𝑎𝑡𝑜 𝑒𝑑 𝑒𝑛𝑢𝑐𝑙𝑒𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑙𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑎𝑢𝑟𝑜”, deve pur esserci un motivo.
Nell’ambito della conservazione e del risanamento di superfici intonacate (borghi e centri storici), credo sia corretto elevare questo titolo a vero Restauro, tributandogli finalmente una professionale considerazione progettuale e non solo qualche voce copiata dalla tariffa.

Ma se compariamo il 𝙗𝙪𝙨𝙞𝙣𝙚𝙨𝙨 𝙘𝙤𝙢𝙢𝙚𝙧𝙘𝙞𝙖𝙡𝙚, per il quale è sempre tutto da rifare con materiali incompatibili, con 𝙡𝙚 𝙡𝙞𝙣𝙚𝙚 𝙜𝙪𝙞𝙙𝙖 𝙙𝙚𝙡 𝙧𝙚𝙨𝙩𝙖𝙪𝙧𝙤 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙚𝙧𝙫𝙖𝙩𝙞𝙫𝙤, per il quale vige l’intervento minimo con materiali compatibili, è facile immaginare chi la spunti nell’era globalizzata.
La filiera produttiva e della distribuzione, hanno sostanzialmente gioco facile nell’imporsi sul mercato.
In pochi sono in grado di difendere le tesi del corretto restauro delle superfici intonacate, foss’anche come “blandamente” avviene per le tinteggiature con i discutibilissimi Piani del Colore.

Malgrado la presenza delle Soprintendenze, è probabile che quest’epoca sia ricordata come nociva per la valorizzazione dell’architettura storica.
Si è consentito di “slegare” la questione del rinnovo cromatico dalla scelta compatibile dei materiali di fondo con i supporti di posa, lasciando ampio e libero margine ad interventi grezzi, incompatibili e mal eseguiti sotto il profilo tecnologico ed applicativo.
𝑆𝑖 𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑚𝑒𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑡𝑖𝑛𝑡𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑖𝑙 𝑝𝑒𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑢𝑛 𝑟𝑖𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒, 𝑝𝑖𝑢𝑡𝑡𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑚𝑝𝑖𝑒𝑔𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑎𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑠𝑢 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑠𝑢𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑒𝑟𝑟𝑎𝑡𝑜.

Senza citare i classici “sette strati di intonaco”, sarà bene attribuire ai tre livelli dell’intervento di restauro delle finiture esterne; 𝙘𝙚𝙣𝙩𝙞𝙢𝙚𝙩𝙧𝙞𝙘𝙤 𝙥𝙚𝙧 𝙞 𝙧𝙞𝙥𝙤𝙧𝙩𝙞 𝙞𝙣 𝙨𝙥𝙚𝙨𝙨𝙤𝙧𝙚, 𝙢𝙞𝙡𝙡𝙞𝙢𝙚𝙩𝙧𝙞𝙘𝙤 𝙥𝙚𝙧 𝙡𝙚 𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩𝙪𝙧𝙚 𝙧𝙚𝙜𝙤𝙡𝙖𝙧𝙞𝙯𝙯𝙖𝙣𝙩𝙞 𝙚 𝙢𝙞𝙘𝙧𝙤𝙢𝙚𝙩𝙧𝙞𝙘𝙤 𝙥𝙚𝙧 𝙡𝙚 𝙩𝙞𝙣𝙩𝙚𝙜𝙜𝙞𝙖𝙩𝙪𝙧𝙚, le singole peculiarità tecnologiche e metodologiche, che in esercizio resteranno strettamente connesse tra loro, in una fluttuante osmosi di idoneità, prestazione, durabilità ed estetica.
L’eredità culturale e il prezioso retaggio di conoscenze millenario sulla conservazione delle superfici dell’architettura risultano decisamente “deboli” nella pratica edile quotidiana.
𝙋𝙧𝙖𝙩𝙞𝙘𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙣𝙤𝙣 “𝙩𝙞𝙧𝙖𝙣𝙤” quanto tira l’enorme profitto generato dal riempire piazzali di rivendite con milioni di bancali di malte dozzinali, false calci con cemento bianco camuffati da materiali storici, 𝙘𝙝𝙚 𝙘𝙤𝙣 𝙡𝙖 𝙨𝙩𝙤𝙧𝙞𝙖 𝙣𝙪𝙡𝙡𝙖 𝙝𝙖𝙣𝙣𝙤 𝙖 𝙘𝙝𝙚 𝙛𝙖𝙧𝙚.

Del resto, se la normativa italiana è clamorosamente assente sull’argomento, come potremmo pensare che la formazione, la competenza (?) o la sola coscienza deontologica di tecnici ed operatori possano arginare questo fenomeno.
Dirigenti di ministeri e soprintendenze, docenti, storici dell’arte, ricercatori, studiosi ed appassionati che ruotano attorno alla tutela dei Beni Culturali 𝙣𝙤𝙣 𝙨𝙤𝙣𝙤 𝙢𝙖𝙞 𝙧𝙞𝙪𝙨𝙘𝙞𝙩𝙞 𝙖𝙙 𝙖𝙡𝙡𝙖𝙘𝙘𝙞𝙖𝙧𝙚 𝙖 𝙘𝙧𝙚𝙖𝙧𝙚 𝙡𝙚 𝙘𝙤𝙣𝙙𝙞𝙯𝙞𝙤𝙣𝙞 𝙥𝙚𝙧 𝙪𝙣 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙚𝙨𝙨𝙚 𝙙𝙞𝙛𝙛𝙪𝙨𝙤 𝙚 𝙥𝙚𝙧 𝙪𝙣 𝙧𝙖𝙥𝙥𝙤𝙧𝙩𝙤 𝙧𝙚𝙘𝙞𝙥𝙧𝙤𝙘𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙪𝙩𝙞𝙡𝙚 𝙘𝙤𝙣 𝙡𝙖 𝙘𝙝𝙞𝙢𝙞𝙘𝙖 𝙞𝙣𝙙𝙪𝙨𝙩𝙧𝙞𝙖𝙡𝙚 𝙚 𝙞𝙡 𝙢𝙤𝙣𝙙𝙤 𝙥𝙧𝙤𝙙𝙪𝙩𝙩𝙞𝙫𝙤 𝙙𝙚𝙞 𝙢𝙖𝙩𝙚𝙧𝙞𝙖𝙡𝙞.
Cosicché quell’elitario “𝙨𝙖𝙥𝙚𝙧𝙚” accademico resta sempre più distante dal cantiere (quindi a cosa serve?), con modalità di aumento esponenziale del fenomeno.
Questo a completo vantaggio della speculazione del mercato, cioè di chi ha il portafoglio e va a comprare, come confermato dagli ultimi scriteriati bonus di efficientamento energetico del costruito, imposti dall’Europa.
Quei pochi che come me cercano, di ridestare l’interesse di funzionari e tecnici progettisti su questa materia, 𝙨𝙤𝙣𝙤 𝙩𝙤𝙩𝙖𝙡𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙞𝙜𝙣𝙤𝙧𝙖𝙩𝙞 𝙚 𝙥𝙧𝙞𝙣𝙘𝙞𝙥𝙖𝙡𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙥𝙧𝙤𝙥𝙧𝙞𝙤 𝙙𝙖 𝙘𝙝𝙞 𝙙𝙤𝙫𝙧𝙚𝙗𝙗𝙚 𝙞𝙣𝙘𝙤𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙖𝙧𝙚 𝙚 𝙧𝙞𝙘𝙚𝙧𝙘𝙖𝙧𝙚 𝙩𝙖𝙡𝙞 𝙞𝙣𝙞𝙯𝙞𝙖𝙩𝙞𝙫𝙚.

Resto del parere che per produrre progetti di qualità nei confronti di superfici storiche, in particolare per le nostre quinte edificate in tufo, sia fondamentale considerare prodotti idraulici pozzolanici (boiacche, malte da intonaco, betoncini, rasanti etc.).
Questo nel pieno rispetto dei dettami della fedeltà all’unità originale (cit. Carte del Restauro), con un serio atto di reinterpretazione e non di mera imitazione, con prodotti formulati da leganti idraulici pozzolanici di calce aerea e zeolite (pozzolana reattiva) ed aggregati provenienti dal territorio.

Quest’approccio antico riferito all’azione fisica della pozzolanicità è idoneo per le soluzioni “conservative”, osservate e studiate in situ attraverso relativa diagnostica conoscitiva (indagini, saggi stratigrafici, sezioni, analisi etc. etc.) e progettate seguendo le raccomandazioni delle Carte del Restauro, ma anche o forse ancor di più, per quegli interventi più comuni di “rifazione” totale.

Operando con fini conservativi, si consolidi il salvabile mediante iniezioni o percoli di boiacche pozzolaniche fluide, si rappezzi centimetricamente e regolarizzi millimetricamente con riporti mirati a proteggere le superfici che andranno terminate con velature non aggressive, che consentono la lettura dell’eseguito.
Per gli interventi di rifazione totale le modalità restano identiche a quelle note a tutti, mentre saranno solo i materiali da impiegare ad essere accuratamente selezionati per offrire una reale compatibilità con i supporti in tufo, prestazione che deve essere notificata della sezione n.3 della scheda di sicurezza (SDS) e non dalle rassicurazioni di un banconista di rivendita o del capocantiere.
